Il Rinascimento è stato un periodo di grande fermento culturale e intellettuale, e le categorie che
emergono in questo contesto sono un nuovo modo di pensare la politica e la società. La riflessione politica,
infatti, inizia a separarsi dalla riflessione morale e religiosa. In precedenza, la politica e la morale erano
strettamente legate, e la religione aveva un forte ruolo nel legittimare il potere politico. Con il Rinascimento,
però, nasce una visione più laica e razionale dello Stato.
Nel caso italiano si sviluppava una nuova concezione dello Stato. L'Italia era ancora divisa in
principati e città-stato, e il concetto di Stato nazionale non era ancora ben definito. A differenza degli
altri paesi europei, dove si stavano affermando monarchie assolute, in Italia la politica era più frammentata.
Lorenzo de' Medici, ad esempio, descriveva la sua famiglia come artefice dello Stato, esemplificando un'idea in
cui il potere politico coincideva con la figura del governante. In questo contesto, lo Stato si
identifica con chi lo governa, e il governante stesso si vede come un rappresentante diretto del potere.
Questa visione, che si allontana dal concetto medievale di Stato come ente separato dal monarca, suggerisce un
cambiamento radicale nella concezione politica. Lo Stato inizia a essere percepito come
un'entità autonoma che può esistere indipendentemente dal potere divino e dalla religione. Questo riflette la
crescente influenza del pensiero laico e della razionalità politica che caratterizzeranno la filosofia
politica moderna.
Tra le filosofie politiche ci sono diverse categorie che risultano
decisive nel pensiero politico: Utopia, sovranità
realismo politico, la ragione di stato e il giusnaturalismo
. Sono categorie che nel corso del tempo subiscono
modifiche, perché strettamente legata alla storia. Ma entriamo più nel dettaglio
per ciascuna di esse.
UTOPIA
Il concetto di utopia è davvero cruciale per la comprensione del pensiero politico del Rinascimento e delle epoche successive. Il termine fu coniato da Tommaso Moro (Thomas More), filosofo, politico e umanista inglese, nell'opera Utopia (1516). La parola utopia deriva dalla combinazione di due elementi: il prefisso "u-" (dal greco "ou", che significa "non" o "nessuno") e "topos" (che significa "luogo"). Quindi, letteralmente, "utopia" significa "nessun luogo" o "luogo che non esiste", suggerendo un luogo ideale che, sebbene perfetto, è irraggiungibile.Nel contesto dell'opera di Moro, l'utopia rappresenta una società ideale, una riflessione sul miglioramento delle condizioni politiche, sociali ed economiche del suo tempo. L'opera è una critica alla società inglese dell'epoca, esponendo le ingiustizie e le disuguaglianze, e proponendo una visione di una società senza povertà, senza privazioni, dove la giustizia e l'uguaglianza prevalgono.
L'utopia ha una duplice funzione:
- Estraniarsi dalla realtà: Moro crea un mondo ideale lontano da quello reale per evidenziare le contraddizioni e le problematiche della sua società. L'utopia, in questo caso, diventa uno strumento per distaccarsi dal presente e osservare criticamente i difetti del sistema politico e sociale.
- Spronare al miglioramento: L'utopia non è solo una fuga dalla realtà, ma anche un invito a cercare di realizzare quelle ideali di giustizia e benessere. Anche se l'utopia è irrealizzabile, il suo scopo è stimolare la riflessione e l'azione per migliorare la società, indicando una direzione verso cui tendere.
REALISMO POLITICO
Il realismo politico è una delle principali correnti di pensiero che emerge durante il Rinascimento. Questa corrente trova una delle sue voci più celebri in Niccolò Machiavelli, il quale introduce una visione innovativa della politica. A differenza dei pensatori precedenti, Machiavelli considera la storia e la politica in modo oggettivo, senza interpretazioni idealistiche o morali, ma attraverso un’analisi concreta e realistica dei fatti.Nelle sue opere, come Il Principe e I Discorsi, Machiavelli si concentra sullo studio dello Stato, inteso come una struttura di potere che deve adattarsi alle circostanze per sopravvivere e prosperare. Il suo obiettivo principale è comprendere come lo Stato possa mantenere il suo potere nel tempo. In questo contesto, il "principe" — figura simbolica del sovrano — rappresenta lo Stato stesso e deve agire in modo pragmatico, senza lasciarsi influenzare da ideali morali o religiosi.
Machiavelli sostiene che il principe debba comportarsi in maniera realista, ovvero essere capace di interpretare i fenomeni sociali e politici con lucidità, libero da qualsiasi categoria morale. La sua condotta deve essere guidata dalla prudenza, che Machiavelli definisce come la capacità di mediazione, cioè l’abilità di stabilire compromessi e alleanze, ma anche di usare la forza quando necessario per difendere il proprio potere. La prudenza è quindi un’arte strategica che permette al principe di navigare tra le incertezze e le sfide del potere.
Un altro concetto centrale nelle riflessioni machiavelliane è la virtù, che non ha il significato tradizionale di moralità, ma si riferisce piuttosto all’intelligenza strategica e alla capacità di adattarsi alle circostanze. La virtù, in questo senso, è la qualità che consente al principe di avere successo, di realizzare i suoi obiettivi, senza farsi vincolare da principi etici astratti.
Politica e Morale
Con Machiavelli, la politica si separa definitivamente dalla riflessione morale e religiosa, adottando una visione del mondo più pragmatica e cinica. L'autore considera l'uomo come essenzialmente malvagio e incline a perseguire il proprio interesse, una visione che lo porta a sviluppare una concezione politica pessimista. Per Machiavelli, la politica non si fonda su ideali morali o sulla religione, ma sulla realtà dei fatti e sulla necessità di esercitare il potere in modo efficace.Machiavelli distingue tra due tipi di azione politica: quella basata su principi ideali e quella basata su circostanze reali. Sebbene l’ideale di Machiavelli fosse una forma di governo simile alla Repubblica Romana, egli riconosce che tale modello è irrealizzabile nel contesto storico del suo tempo, segnato da profondi cambiamenti politici e sociali.
SOVRANITÀ
La categoria della sovranità è fondamentale nella filosofia politica rinascimentale, e Jean Bodin è una delle figure chiave per la sua definizione. Nel suo lavoro Les Six Livres de la République (1586), Bodin offre una delle prime teorie sistematiche della sovranità come concetto giuridico-politico. La sua concezione di sovranità rappresenta un punto di svolta nella riflessione politica moderna, poiché stabilisce che la sovranità è un potere supremo, assoluto e indivisibile, che deve essere esercitato in modo centralizzato.Bodin definisce la sovranità come il potere supremo e assoluto di un governo, che non può essere limitato né da altre autorità, né da leggi esterne. La sovranità è l’elemento che rende lo Stato indipendente e autonomo. È una forza che permette allo Stato di avere l'ultima parola in tutte le decisioni politiche, legali e sociali.
Secondo Bodin, la sovranità si distingue in due aspetti fondamentali:
- L’assolutezza: Il sovrano ha il potere di agire senza limiti legali, politici o morali. Non vi è nessuna autorità superiore alla sua, nemmeno la Chiesa o il diritto naturale.
- L'indivisibilità: La sovranità è unica e indivisibile, non può essere suddivisa tra più entità. Questo principio si oppone al sistema feudale, dove il potere era frazionato tra i vari signori feudali.
Sovranità come Concetto Divino
Un aspetto importante della definizione di Bodin riguarda il suo tentativo di giustificare la sovranità in termini divini. Secondo lui, la sovranità è un potere che, pur esercitato da un monarca, ha una fondazione divina. Non è solo un potere terreno o umano, ma è visto come derivante direttamente da Dio, il che le conferisce una legittimità assoluta. In altre parole, il sovrano esercita il suo potere come un rappresentante di Dio sulla Terra, e la sovranità divina è ciò che legittima l’autorità del sovrano. Tuttavia, questa visione di sovranità implica anche che lo Stato sia visto come un’entità autonoma, separata dalle altre forme di potere (specialmente dalla Chiesa) e imperitura nel suo fondamento. L’indipendenza dello Stato è legata al fatto che la sua sovranità non dipende dalle persone che lo governano, ma è una caratteristica intrinseca dello Stato stesso. Ciò implica che il potere sovrano continua a esistere anche quando cambiano i governanti.La sovranità di Bodin implica anche una nuova visione dello Stato come un’entità unitaria. Lo Stato n on è più visto come un insieme di entità separate (come nel sistema feudale, dove il potere era diviso tra diversi signori e autorità), ma come un’entità centralizzata e indivisibile. Questa concezione di sovranità diventerà uno dei fondamenti della teoria del monarchismo assoluto che si sviluppa nei secoli successivi, come nel caso della Francia sotto Luigi XIV, che si definiva "Re Sole", incarnando lui stesso la sovranità dello Stato.
RAGION DI STATO
La ragion di Stato è una categoria introdotta dal pensatore e teologo italiano Giovanni Botero, che ha scritto un’opera fondamentale intitolata Della ragion di Stato (1589). In questa riflessione, Botero fornisce una teoria politica che cerca di giustificare l'azione politica e la gestione del potere in base a un criterio di efficacia e necessità per il bene dello Stato, talvolta anche a scapito della morale tradizionale o della religione.La ragion di Stato secondo Botero si fonda sull'idea che lo Stato ha il diritto e il dovere di perseguire la sicurezza e la stabilità della propria nazione, anche quando le decisioni politiche comportano atti che potrebbero non rispettare i principi morali o religiosi convenzionali. In altre parole, quando la moralità ordinaria e la politica si trovano in conflitto, l'interesse superiore dello Stato deve prevalere.
Secondo Botero, sebbene lo Stato abbia il dovere di operare secondo principi morali, esistono delle circostanze straordinarie in cui il perseguimento del bene pubblico e la sicurezza dello Stato possano entrare in contrasto con la moralità. In questi casi, Botero sostiene che sia legittimo che lo Stato agisca contro i principi morali usuali per garantire la sua stabilità e la sua sopravvivenza. Questo è un aspetto che differenzia la ragione di Stato dalle teorie politiche precedenti, che enfatizzavano l'importanza della morale universale come fondamento di ogni atto politico.
Botero sottolinea che il governante, pur mantenendo l'obbligo di rispettare la moralità, deve essere pronto ad adattarsi alle necessità del momento, anche se queste necessità richiedono azioni non convenzionali o apparentemente immorali. Per esempio, in situazioni di guerra, di crisi interna o di minaccia esterna, il governante potrebbe essere costretto a fare scelte difficili, che vanno contro i principi etici tradizionali, ma che sono necessarie per mantenere l'ordine e la sicurezza.
Il governante ha il compito di ricondurre la novità e la crisi temporale a una dimensione quotidiana e ordinaria, per evitare che l'evento straordinario metta in pericolo l'intero ordine politico. La novità, in politica, può essere destabilizzante e, se non ben gestita, rischia di distruggere le tecniche e le strutture di governo consolidate. Per questo, il governante deve essere in grado di gestire il cambiamento e farlo in modo che non alteri le basi della stabilità statale.
L'Influenza di Botero sulla Teoria Politica Moderna
La concezione di ragione di Stato di Botero è di grande importanza per lo sviluppo della teoria politica moderna. Essa rappresenta una riflessione su come il potere politico si legittimi attraverso la necessità di preservare lo Stato e la sua stabilità, anche a costo di sacrificare alcuni principi morali. La sua visione ha influenzato molti pensatori successivi, tra cui Niccolò Machiavelli, che pur operando in un contesto diverso, condivide con Botero l'idea che la politica, in certe situazioni, possa giustificare l'uso di mezzi non morali per il fine di mantenere il potere e proteggere lo Stato.In sintesi, la ragione di Stato di Botero si situa in una riflessione pragmatica sulla politica, in cui le necessità politiche e le circostanze straordinarie possono giustificare l'adozione di scelte che normalmente sarebbero considerate immorali. La sua teoria ha avuto un impatto significativo nella formulazione del concetto moderno di realismo politico, in cui l’interesse dello Stato prevale su principi morali astratti.
GIUSNATURALISMO
Il termine giusnaturalismo deriva dal latino ius naturale, ovvero il diritto naturale, e indica una corrente di pensiero secondo la quale esistono diritti fondamentali, intrinseci alla natura umana, che devono essere rispettati da qualsiasi legge o codice scritto. Secondo questa visione, il diritto non è solo un prodotto della volontà umana o dello Stato, ma è fondato su principi universali e immutabili.Questa corrente filosofico-giuridica ha avuto un impatto enorme sulla teoria politica moderna, influenzando la nascita dello Stato moderno e delle moderne democrazie liberali. Tra i principali esponenti troviamo Samuel von Pufendorf e Ugo Grozio, ma i tre pensatori che hanno avuto il maggiore impatto sono Thomas Hobbes, John Locke e Jean-Jacques Rousseau, che hanno teorizzato modelli di governo molto diversi tra loro.
Thomas Hobbes
Thomas Hobbes è uno dei principali filosofi del giusnaturalismo e del contrattualismo moderno. La sua opera più importante, Leviatano (1651), rappresenta una delle più influenti riflessioni sulla natura del potere politico e dello Stato. Hobbes parte da una visione pessimistica della natura umana, sostenendo che senza un'autorità centrale forte, la società cadrebbe nel "bellum omnium contra omnes" (la guerra di tutti contro tutti).Hobbes teorizza che gli uomini, per natura, sono egoisti e mossi dal desiderio di autoconservazione. In assenza di un potere sovrano, si troverebbero in uno stato di natura caratterizzato da caos, insicurezza e conflitto permanente. L’unico modo per uscire da questa condizione è stipulare un contratto sociale, in cui gli individui cedono la propria libertà a un’autorità superiore in cambio di sicurezza e ordine.
Hobbes distingue due fasi nel contratto sociale:
- Pactum Unionis (o Societatis): È il patto attraverso il quale gli individui, che inizialmente sono solo una moltitudo disorganizzata, decidono di unirsi in un populus, riconoscendosi in una lingua, cultura e tradizioni comuni. È una sorta di contratto sociale primario, ma da solo non basta a garantire la stabilità politica.
- Pactum Subiectionis: È il passaggio fondamentale: gli individui cedono tutti i loro diritti (eccetto quello alla)vita a un Sovrano assoluto, che può essere un monarca o un'assemblea. Questo Sovrano ha il potere assoluto e non può essere messo in discussione, perché il suo ruolo è garantire la pace e la sicurezza.
Hobbes introduce quindi un concetto fondamentale nella teoria politica: la paura come fondamento del potere. Lo Stato deve incutere timore ai cittadini affinché rispettino le leggi. Senza la paura del potere sovrano, gli uomini tornerebbero allo stato di natura, fatto di violenza e anarchia.
Uno degli elementi centrali del pensiero di Hobbes è poi il conflitto tra libertà e sicurezza. Per lui, la libertà individuale è un lusso che non può esistere senza ordine e stabilità. L’unico diritto inalienabile è il diritto alla vita, mentre tutti gli altri diritti possono (e devono) essere sacrificati per garantire la pace.
Nel Leviatano, Hobbes critica l’uso della religione come strumento di potere separato dallo Stato. Egli sostiene che la Chiesa deve essere subordinata al Sovrano, perché il potere religioso non deve entrare in contrasto con l’autorità politica. In questo senso, il suo pensiero contribuisce alla formazione dello Stato laico moderno.
Sebbene Hobbes sostenga uno Stato assoluto, il suo pensiero influenzerà il liberalismo moderno, perché introduce il principio del contratto sociale e della legittimazione del potere attraverso il consenso. In altre parole, anche se lo Stato è forte, nasce dalla volontà degli individui che scelgono di sottomettersi per il loro stesso interesse.
Jhon Locke
John Locke è uno dei principali filosofi del liberalismo politico e il teorico della monarchia costituzionale. La sua opera più influente è il Secondo Trattato sul Governo (1690), in cui sviluppa una teoria politica basata sulla libertà individuale, la proprietà privata e il diritto alla ribellione.Locke, come Hobbes, parte dalla teoria del giusnaturalismo, ma ha una visione più ottimistica della natura umana. Secondo Locke, nello stato di natura gli uomini sono liberi e uguali, e possiedono diritti inalienabili: la vita, la libertà e la proprietà privata. Tali diritti sono naturali, cioè esistono prima dello Stato e non possono essere negati da nessun governo.
A differenza di Hobbes, per Locke lo Stato nasce quindi per garantire i diritti naturali, non per reprimerli. Gli individui stipulano un contratto sociale per uscire dallo stato di natura e affidano il potere a un sovrano. Tuttavia, il potere sovrano non è assoluto: egli deve garantire i diritti naturali, rispettare la Costituzione e seguire la volontà del popolo. Se il sovrano non rispetta questi principi, il popolo ha il diritto di ribellarsi (diritto alla resistenza). Questo è un principio fondamentale che influenzerà la Rivoluzione Americana e la Rivoluzione Francese.
In questo senso, Locke rivede il concetto di Pactum Subiectionis: il sovrano ha potere solo finché rispetta i diritti naturali. Se il governo diventa tirannico e viola questi diritti, il patto viene rotto e, in tal caso, il popolo può ribellarsi legittimamente e instaurare un nuovo governo. Questo concetto è alla base della monarchia costituzionale: il re non è un sovrano assoluto, ma deve governare nel rispetto della legge e dei diritti dei cittadini.
Il liberalismo di Locke è politico e si basa sui diritti naturali e sul governo limitato. Non è quindi da confondere con il liberismo economico, che si svilupperà in seguito con Adam Smith sostiene che lo Stato non debba interferire nell’economia. Secondo il liberismo, il mercato si autoregola attraverso la concorrenza ed ognuno, perseguendo il proprio interesse, contribuisce al benessere collettivo.
Jean-Jacques Rousseau
Jean-Jacques Rousseau è uno dei pensatori politici più influenti del giusnaturalismo, noto per la sua concezione della democrazia diretta e per la sua critica alle forme di governo rappresentative. Egli parte dalla concezione dello stato di natura, uno stato originario in cui l’uomo vive in modo libero, autosufficiente e senza corruzione. A differenza di Hobbes, che vede lo stato di natura come una condizione di guerra di tutti contro tutti, Rousseau lo considera un’età dell’innocenza e della libertà naturale. Tuttavia, con il progresso e la nascita della proprietà privata, gli uomini iniziano a competere tra loro, generando disuguaglianze e dipendenze sociali. Questo porta alla formazione di una società organizzata, che però non è fondata sulla libertà, ma sull'oppressione.Per superare la corruzione e le disuguaglianze della società, Rousseau propone la creazione di un patto sociale basato sulla volontà generale. L’idea centrale del Contratto sociale (1762) è che gli individui, anziché sottomettersi a un'autorità esterna, devono autogovernarsi attraverso un accordo collettivo. Questo non significa che ogni individuo possa fare ciò che vuole, ma che tutti devono contribuire a formare la volontà generale, che rappresenta il bene comune. Tale volontà non è la semplice somma delle volontà individuali, ma il risultato della loro trasformazione in un interesse collettivo. Essa è sempre orientata al bene comune, quindi superiore alle volontà particolari, e chi si sottomette alla volontà generale non è schiavo, ma libero, perché obbedisce a una legge che lui stesso ha contribuito a creare.
Inoltre, Rousseau è un teorico della democrazia diretta, che riprende in parte il modello ateniese dell'epoca di Pericle. Secondo lui, ogni cittadino deve partecipare attivamente alla creazione delle leggi, senza delegare il potere a rappresentanti politici. Questo lo porta a rifiutare la democrazia rappresentativa, tipica delle moderne repubbliche parlamentari, perché vede nella delega del potere un rischio di corruzione e abuso. Nel suo modello ideale non esiste uno Stato centralizzato, ma una comunità politica fondata sulla partecipazione attiva di tutti. L’individuo non è suddito, ma cittadino, poiché contribuisce alla formazione delle leggi, e la libertà non è solo individuale, ma collettiva: si è veramente liberi solo quando si partecipa alla volontà generale.
A differenza di altri filosofi del suo tempo, Rousseau non ritiene che lo Stato sia un'istituzione necessaria e positiva. Anzi, per lui le istituzioni politiche tradizionali tendono a perpetuare le disuguaglianze e a distorcere la volontà popolare. Questo pensiero avrà una forte influenza su Karl Marx, che vedrà in Rousseau un precursore della critica alle strutture di potere che opprimono la libertà dell’individuo.